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Vorrei iniziare citando l’incipit di Anna Karenina di Leone Tolstoj. Dice Tolstoj:”tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. I modi di manifestare l’infelicità per Tolstoj possono essere dunque i più disparati e pur se la storia di Anna sembra potersi tristemente ricollocare all’interno dei più triti clichè sulle  infedeltà coniugali e sui tradimenti, la penna di Tolstoj rende Anna Karenina un personaggio unico e indimenticabile.

Cercherò di mettere in evidenza come in molti casi, pur nel modo proprio e particolare in cui si declinano le storie d’amore infelici, come sostiene Tolstoj, esista comunque una condizione psicologica sottostante che le accomuna e che ne determina sia la maniera di realizzarsi che le condizioni di ripetibilità.

Il titolo del seminario fa riferimento alla coppia in crisi. Ma non parlerò delle crisi che sono di un momento: rotture anche dolorose, che però spesso a seguito di aggiustamenti e accomodamenti, conducono ad equilibri più avanzati e stabili. Parlerò invece delle crisi che  rappresentano il momento terminale di un processo che parte da lontano, che può risalire fino al momento della scelta del partner. Sono queste le crisi che determinano una sofferenza ed un’infelicità molto profonde e che spesso esitano in una depressione vera e propria.
Mi servirò della storia di Anna Karenina come spunto di base e modello di confronto con un’altra storia che andrò a raccontare, allo scopo di trovare il tratto comune di cui ho parlato.
Per chi non la conosce, riassumo brevemente la trama del romanzo.

Anna Karenina
Anna è una donna dell’aristocrazia moscovita del XVIII secolo, sposata col conte Karenin, dal quale ha avuto un figlio. Quando conosce il conte Vronskij che inizia a corteggiarla, Anna ne rimane profondamente turbata. Ella non è innamorata del marito, ma è profondamente legata al figlio. Resiste dapprima al corteggiamento di Vronskij finchè, un pomeriggio, gli si abbandona “scivolando” sul divano. La scena della seduzione è tutta qui, in questo “scivolamento” di un’intensità quasi intollerabile. Chi ha letto il romanzo, sa cosa intendo. Forse il momento risulta così intenso perché l’autore ci fa già avvertire gli altri “scivolamenti” cui lei andrà incontro.
Rimane incinta, rischia quasi di morire, Vronskij tenta il suicidio per il rimorso e il marito, dopo aver scoperto la storia,  le dice che se lo abbandonerà per Vronskij, non le farà più vedere il figlio. Ma lei lo lascia ugualmente, parte con Vronskij, viaggiano, soggiornano a lungo in Italia e infine tornano a vivere in campagna, non  molto distanti da Mosca. Mai Tolstoj ci fornisce l’immagine di una felicità piena: la mancanza del figlio, il dolore ed il rimorso per averlo lasciato, aleggiano costantemente ed incarnano l’insoddisfazione di lei, si embricano nel suo cominciare a tormentare l’amante con la gelosia, con le recriminazioni.
Finché Vronskij stanco e  infastidito, pur se ancora molto innamorato, prova ad allentare la tensione e torna a Mosca. Anna pensa che sia finita, lascia anch’essa la casa in campagna e compie in treno il viaggio di ritorno a Mosca in un deliquio, in un’atmosfera allucinata e quasi delirante. Infine si uccide, gettandosi sotto un treno, lasciando il lettore sbigottito, pur di fronte all’inevitabile. Perché non si può non amare Anna: nella sua umanità vera e dolente, è molto affascinante. Questa donna che all’inizio, secondo gli appunti preliminari al romanzo, doveva essere una “donna volgare dalla fronte bassa” che l’autore detestava, è cresciuta sino a diventare una delle figure più belle e seducenti di tutta la letteratura mondiale. E quanto deve poi averla amata Tolstoj, che non la giudica mai, lui così rigoroso nella sua morale.
Dopo il suicidio, il dolore di Vronskij è insostenibile: è distrutto, e non solo per la perdita. Col suo gesto Anna ha voluto condannare lui e la società tutta. Con lui ci è riuscita. Qualche tempo dopo parte per la guerra, ormai è un uomo finito. Il conte Karenin ottiene l’affidamento anche della figlia che Anna ha avuto con Vronskij.
Anna Karenina è un grande romanzo sull’irredimibilità della colpa, sull’inflessibilità del senso di colpa. Oltre ad essere il protagonista di molti romanzi dell’Ottocento, il senso di colpa riveste un ruolo centrale anche nella storia del movimento psicoanalitico. Il senso di colpa sorge in conseguenza dei rimproveri che il Super Io, la nostra coscienza morale, rivolge all’Io quando questi non si comporta secondo i precetti che gli sono stati inculcati. Più il Super Io è rigido e intransigente e più il senso di colpa sarà pervasivo. Può essere inoltre anche inconscio, può riferirsi cioè non ad un’azione o ad un desiderio esperiti razionalmente, ma rappresentare la punizione per un desiderio inconscio.
Il Super Io comprende anche l’Io Ideale, istanza che contiene gli aspetti ideali del Sé che si sono sedimentati nel corso della sviluppo, principalmente come introiezione dei valori professati dai genitori e dagli altri adulti significativi. Anche la mancata realizzazione degli scopi dell’Ideale dell’Io provoca un senso di inadeguatezza, disagio e colpa.
E’ ciò che ritroviamo, ad esempio, nei casi gravi di cosiddetta addiction, nei casi cioè di dipendenza dall’alcol e dalle droghe o nei disturbi alimentari e nelle compulsioni sessuali. In questi casi l’attacco al corpo e la degradazione che ne consegue, determinano un senso di indegnità e di vergogna, proprio a causa della svalutazione della propria immagine corporea, immagine corporea che contribuisce in maniera determinante all’immagine complessiva del Sé.
Ma ora passiamo ad esaminare un caso che ci consentirà di immergerci ancor più nelle dinamiche della coppia in crisi. Tenterò una spiegazione dal punto di vista clinico, pur sapendo che, avendo sullo sfondo Anna Karenina, la grande arte anticipa e descrive con facilità e fluidità sorprendente quello che noi psicologi ci sforziamo di scoprire lentamente e faticosamente e che descriviamo spesso in modo impreciso e confuso.

Storia di Marco
La cosa che più mi colpisce in Marco, quando lo vedo per la prima volta, è il fatto che gli occhi gli si riempiano di lacrime mentre parla, anche se apparentemente non sta toccando argomenti che possano sembrare così dolorosi da giustificare il pianto. Lui sembra non accorgersi della cosa.
Ha 31 anni e da 3 mesi è stato lasciato dalla sua ragazza con la quale era insieme da 12 anni e che avrebbe dovuto sposare presto. Avevano già prenotato il ristorante, quasi terminato di arredare la casa, un appartamentino proprio sopra quello dei genitori di lei. Tutto sembrava andare per il meglio, o meglio tutto sembrava che non potesse che andare così, fino al giorno in cui lei gli aveva detto, piangendo, che non era più sicura, che forse stavano facendo uno sbaglio, che dovevano aspettare a sposarsi.
Non era certo la prima volta che discutevano, anzi una volta si erano separati per più di 6 mesi, ma questa volta aveva sentito in lei una determinazione nuova, diversa. Mentre lui ancora arrancava tentando di capire cosa fosse successo, mettendo in atto tutte le strategie che in passato avevano risolto le loro crisi, lei gli aveva detto che non dovevano vedersi più. E aveva perseguito con risolutezza la sua decisione, anzi all’inizio non gli aveva risposto più neppure al telefono. Marco non riusciva a capacitarsi di una tale determinazione. Arrivò a pensare che potesse essersi innamorata di un altro. Ma lei lo negava recisamente ed anche gli amici comuni gli confermavano che lei continuava ad essere sola.
Da allora è sprofondato nella depressione, non mangia quasi più, è dimagrito di 10 chili, non dorme e ha avuto anche qualche attacco di panico che lo ha portato al pronto soccorso.
Vedo quanto la decisione repentina ed inaspettata della sua ragazza lo abbia lasciato sorpreso, sbigottito.
Gli chiedo se proprio non aveva notato alcun cambiamento prima della rottura. Nega, ma poi riflette e ammette che qualche mese dopo che lei aveva iniziato a lavorare, alla fine dell’anno precedente, avevano cominciato a discutere più spesso, perché lui le rimproverava una maggiore freddezza ed una minore disponibilità a mettere da parte le sue cose per vedersi e stare insieme. E anche se lei continuava a ripetergli che erano solo sue impressioni, che era stanca per il lavoro, pure lui non si era rassicurato del tutto. In realtà, realizza, quello che allora lo preoccupava era il timore di non rappresentare più la figura più importante della sua vita, come lei gli aveva sempre assicurato e come lui era stato ben felice di credere. La sentiva più autonoma, meno dipendente. Era questo, comprende ora, a renderlo insicuro e dubbioso.
Lei sin dall’inizio del loro rapporto era stata estremamente attenta a tutto quanto Marco le diceva. La sua opinione contava molto e lei ne ricercava continuamente l’approvazione. La cosa lo gratificava assai e per la prima volta nella sua vita  aveva la sensazione di poter fare completo affidamento su una persona, per la quale sentiva di essere indispensabile.
Naturalmente sintetizzo ai fini del racconto quanto emerso nel corso di diversi mesi, e quello che può sembrare il resoconto lineare di un incontro, rappresenta in realtà il condensato di molte sedute.
Un’altra cosa che gli viene in mente dopo qualche tempo, e che dice come di passaggio, è che negli ultimi tempi avevano ridotto molto anche i rapporti sessuali, precisando che comunque la sessualità non aveva mai rivestito un ruolo centrale nel loro rapporto.
Riflettendo sul significato della loro unione, anche alla luce della diminuzione di questi aspetti passionali, dice che erano molte le cose che gli facevano venire dei dubbi, tanto che a volte si trovava ad invidiare le storie dei suoi amici che gli sembravano piene e frizzanti, mentre la sua la sentiva spesso piatta e stanca. Qualche anno fa, confessa, si era anche preso una mezza cotta per una sua collega (Marco lavora in banca). Ci aveva anche un po’ provato, ma non era successo niente e comunque la cosa non aveva avuto, secondo lui, alcun riflesso nel rapporto con la sua ragazza, che non se ne era accorta. Comunque, la loro storia rappresentava per entrambi un punto fermo che non doveva nè poteva essere messo in discussione, anche se ora gli sembra che forse i progetti per il futuro,  reiterati continuamente, servivano proprio a tenere il più lontano possibile i loro dubbi.
Mano a mano che si va avanti con le sedute, la sofferenza di Marco tende ad attenuarsi, ora lo spazio dei nostri incontri non è occupato esclusivamente ed ossessivamente da lei e può cominciare ad emergere anche un po’ della sua storia familiare.

La storia familiare
Ha un fratello ed una sorella più piccoli. Mentre lui e il fratello vivono ancora con i genitori, la sorella si è sposata molto giovane ed ha già due bambini. I suoi genitori sono entrambi impiegati. In realtà ora il padre è in pensione, mentre la madre continua a lavorare.
Non gli hanno mai fatto mancare nulla, ma affettivamente li giudica un po’ immaturi. Racconta che spesso, sin da ragazzo, si era trovato ad assumere il ruolo di chi è più grande della sua età ed a lui venivano fatte delle richieste che non vennero fatte, per esempio, al fratello quando raggiunse la sua stessa età. Inoltre spesso rivestiva un ruolo di supporto nei confronti della madre, che si appellava a lui quando c’erano disarmonie col marito. Gli chiedeva man forte e anche se Marco non entrava nelle loro discussioni, pure sentiva interiormente di essere dalla parte della madre e di provare rancore e rabbia nei confronti del padre.
Ora si rende conto che esisteva una sorta di complicità tra loro, a volte usata da entrambi contro il padre. La madre chiedeva a lui dei consigli sul proprio abbigliamento e spesso a pranzo si cucinava quello che lui preferiva. Era molto gratificato dal ruolo che la madre gli riservava, ne era orgoglioso, superbo, anche se confusamente sentiva che avrebbe dovuto contrastare questo stato di cose.
Quando lo invito a riflettere sui tratti in comune tra la dipendenza da lui sia della madre che della sua ragazza, rimane molto colpito, dice che non ci aveva mai pensato prima e resta pensieroso ed assorto per molto tempo.
Noi che osserviamo Marco dall’esterno probabilmente ci meravigliamo della sua meraviglia, forse tutti avrete notato la somiglianza tra le dinamiche messe in atto con la madre e quelle messe in atto con la sua ragazza. Ma quante volte è capitato, nel corso della vita, riferendoci ai comportamenti di qualcuno che conosciamo pensare:” ma come può non accorgersi di quello che fa?” e notare come possa esistere una grande difficoltà nel rendersi conto dei propri comportamenti, specie se sbagliati. Il motivo di tale apparente stupidità risiede nel fatto che gran parte dei nostri atteggiamenti,  comportamenti e convinzioni traggono la loro origine da modelli inconsci.
Ciò che agli altri appare evidente e facilmente accessibile è invece, per la persona portatrice di un dato atteggiamento o comportamento, di difficilissima accessibilità perché, salvo casi di malafede, risponde a delle logiche che non sono note.
Ecco perché spesso si usa dire che gli altri ci conoscono meglio di quanto noi stessi ci conosciamo (naturalmente non si parla di episodi specifici della vita di ognuno): perché gli altri notano e annotano i nostri comportamenti e anche perché, fatto ancora più importante, l’inconscio comunica, cosicché gli altri possono venire a conoscenza di elementi del nostro inconscio che invece per noi rimangono inaccessibili. La comunicazione inconscia è un fenomeno molto comune e molto utilizzato in psicoterapia, ma è frequente anche nelle relazioni di tutti i giorni.
Marco non tornò direttamente sull’argomento della somiglianza degli atteggiamenti di madre e fidanzata, ma evidentemente dentro di lui qualcosa era accaduto, perché dopo un paio di sedute ricordò che da bambino era molto geloso dei suoi fratelli e che per assicurarsi l’amore dei suoi genitori, specialmente della mamma, aveva iniziato a fare dei piccoli lavoretti per lei. Più che altro, dice, le girava attorno per chiederle se poteva esserle utile. Questo lo faceva sentire più tranquillo di continuare a rimanere il preferito, ed esserle vicino gli consentiva anche di vedere quello che accadeva con i fratelli.
Cercare di controllare l’andamento affettivo domestico lo costrinse a rimanere più in famiglia, diradando gli incontri con gli amichetti. Quando doveva andare a scuola e qualcuno dei suoi fratelli doveva invece restare a casa perché malato, il pensiero di quello che poteva accadere durante la sua assenza, le attenzioni riservate a qualcun altro senza che lui potesse essere presente, lo riempiva di inquietudine. A volte giunse perfino a fingersi malato quando qualcuno dei suoi fratelli non poteva andare a scuola, ed a volte finse solo per non andare ed essere coccolato. Da quando era iniziata questa gelosia anche il suo rendimento scolastico era peggiorato: le maestre riferivano che spesso era disattento e assente.
Marco ricorda che per un lungo periodo di tempo fu preso da questa preoccupazione di garantirsi l’affetto: aveva la paura costante di poter perdere l’amore della madre. Poi la cosa passò, la madre perse quella centralità ossessiva nei suoi pensieri. Si meraviglia di come non avesse mai ripensato prima a questo periodo della sua vita.  
Sappiamo che la rivalità tra fratelli accompagna l’umanità sin dai suoi albori, la particolarità in cui Marco declinava la sua, la possiamo rintracciare in quella sorta di “lavoro ai fianchi” per cui invece di manifestare aggressivamente la sua gelosia verso i fratelli, preferiva guadagnarsi e assicurarsi l’amore della madre.
La sua strategia deve aver avuto successo se la madre gli chiedeva consiglio tanto spesso, se cercava di schierarlo dalla sua parte e se mostrava di tenere molto a lui: insomma era riuscito a rendersi indispensabile, così sperava di riuscire a dominare le sue paure.
Corre l’obbligo di notare che quando gli esseri umani hanno bisogno di rendersi indispensabili per qualcun altro è perché, dietro la loro apparente abnegazione, dietro il tentativo di far sentire all’altro che è lui ad aver bisogno, nascondono in realtà un loro negato bisogno di appartenenza e di dipendenza, accompagnato dal timore di non essere degni di essere amati.
Cerchiamo di comprendere perché si arriva a questo, partendo dall’inizio, e l’inizio per la psicoanalisi, come si sa, è la primissima infanzia.
Anche nel corso del seminario dello scorso anno sulla depressione, parlando dell’infanzia, era stato necessario fare  un excursus sul modo in cui si arriva alla soggettivazione. Riprendiamo in parte quel che dissi allora, e ricordiamo che quando si parla di oggetto ci si riferisce sempre ad una persona, mentre per soggettivazione si intende il processo mediante il quale si acquisisce la propria individualità, si diventa cioè una persona completa.
 
La soggettivazione
Dunque per tutti esiste nel corso dello sviluppo il vincolarsi della libido, che è la forza vitale che contiene in sé tutti gli impulsi, ad una persona in particolare, che chiamiamo l’oggetto primario e che è chi fornisce le cure, il caregiver come dicono gli Inglesi. Questo oggetto primario in genere è  la madre.
I rapporti con l’oggetto, nei primi tempi dello sviluppo, sono rapporti essenzialmente narcisistici: non essendoci ancora separazione tra Io e mondo, tra Me e non-Me,  il rapporto con l’oggetto esterno, è ancora solo rapporto con il proprio Sé, tanto che la scoperta di ciò che sta al di fuori è il primo atto di individuazione, in quanto il bambino tende a soggettivare se stesso come qualcosa di separato.
Nelle normali condizioni di sviluppo arrivare a concepire la madre come un oggetto esterno separato, rappresenta il primo atto verso la soggettivazione, soggettivazione che comporta la perdita del rapporto con l’oggetto come parte del Sé, per riconoscerlo come oggetto staccato, autonomo.
Ma se a causa di una mortificazione reale, di una delusione, di una difficoltà di rapporto con questa figura, la relazione viene disturbata, allora essa non evolve naturalmente verso un processo di individuazione e di separazione perché, allo scopo di evitare la perdita dell’oggetto amato, anzi per trattenere ancora l’ oggetto con il quale il legame è diventato labile e insicuro, l’Io stacca la libido ad esso collegata, ma anziché spostarla su un’altra persona la riporta all’interno di se stesso (nota sulla impossibilità di spostare la libido per la costanza dell’oggetto e la mancanza di alternativa come dice Kohut).
Di fatto si tratta di abbandonare un oggetto verso il quale il legame è risultato labile per ricreare una situazione narcisistica, una regressione al narcisismo iniziale: l’Io torna ad amare se stesso perché l’oggetto verso cui si era riversato l’amore non si è dimostrato affidabile.
Questo ritiro serve a sottrarre dalla dissoluzione l’amore verso l’oggetto, cioè l’Io salva l’amore, visto che non può salvare l’oggetto. Ma questo meccanismo di introiezione rende impossibile un compiuto processo di individuazione e separazione perché se l’oggetto è introiettato, logicamente il distacco dall’oggetto diviene impossibile.
Si resta, in altri termini, in una condizione di pre-soggettivazione. La mia semplificazione non deve lasciar intendere che questo sia l’esito di una situazione sporadica, occasionale. Non si può pensare, in altri termini, che se la madre delude una volta, due, dieci, si verificherà il distacco della libido.  
La mancata soggettivazione è la conseguenza di un tipo di rapporto con l’oggetto che dura nel tempo, che si caratterizza durante tutto il tempo dell’accudimento, così mentre le accresciute  capacità fisiologiche conducono all’autonomia fisica, le capacità psicologiche non subiscono la stessa evoluzione verso l’autonomia.  
Non si raggiunge cioè quello stadio di sviluppo che Winnicott definisce “separatezza”  e che  consiste nella capacità di essere soli. E’ fondamentale accedere a questa capacità, perché solo se sappiamo essere soli riusciamo a bastarci, a essere autosufficienti, a stare in posizione eretta in maniera autonoma e, cosa che può apparire paradossale ma che è la conseguenza più importante del processo, a non sentirsi soli.
Altrimenti nell’incontro con l’Altro, riproporremo sempre modalità di rapporto di tipo fusionale, modalità nelle quali, per sfuggire al senso di precarietà e di solitudine, l’Altro è  chiamato a sorreggerci, a vicariarci. In altri termini con l’Altro del futuro,  riproporremo la modalità eccessiva e condizionante che caratterizzò il rapporto con l’Altro indispensabile dell’infanzia. La relazione che si creerà, tenderà alla ricerca di un appoggio, quasi di una protesi, che supporti una condizione di manchevolezza e di instabilità che, se non riequilibrata, creerà molta ansia.
Questo ha due conseguenze: in primo luogo che la relazione che così si viene a creare è una relazione altamente dipendente, dove ognuno è funzionale al bisogno di stabilità dell’altro; e in secondo luogo, elemento ancora più caratterizzante, che già nel momento della scelta del partner, si sarà inevitabilmente attratti proprio da chi può rivestire il ruolo di cui si ha bisogno. Sono solito ripetere ai pazienti che vivono relazioni di questo tipo che una coppia, per definirsi tale, ha bisogno di essere composta da due unità complete (nel senso di completamente soggettivate), altrimenti ci sarà solo la somma di due parti parziali, magari fortemente e nevroticamente intrecciate, ma non una coppia.
Proviamo ora a comprendere le dinamiche relazionali di Marco alla luce di quanto abbiamo detto.

Coazione a ripetere: l’incastro
Uno dei meccanismi fondamentali dell’agire umano è l’abitudine. L’abitudine è un fenomenale metodo di risparmio di energia ed un ottimo sistema di rassicurazione. Se utilizzata troppo conduce al fare abitudinario, come di chi ormai pigramente si rifugia in modi appunto rassicurativi e confortanti senza sperimentarsi, senza rischiare più. Ma se non si esagera, l’abitudine risulta in comportamenti e modi di pensare utili ed economici. Collegato all’abitudine, ma inconscio e fondamentale per l’agire psichico, è invece la coazione a ripetere che consiste nel ripetere, appunto, in occasioni diverse, modelli comportamentali che una volta si erano rivelati utili. A differenza dell’abitudine, la coazione a ripetere, come dice il nome, è caratterizzata dalla coercibilità, e poiché il suo esplicarsi è del tutto inconscio, i suoi effetti sono oltremodo efficaci. E’ il meccanismo che è in azione quando ad esempio ci troviamo a reagire per l’ennesima volta ad una qualche situazione proprio nel modo usuale, ed invece ci eravamo ripetutamente ripromessi di non farlo più.
Ancora una volta ci si accorge di aver agito in quel modo solo dopo averlo fatto. Ecco, quando accade questo, è merito della coazione a ripetere.
Ora se mettiamo insieme quanto detto a proposito degli effetti della carenza di soggettivazione che induce a ricercare relazioni supportive e fusionali, con la spinta alla ripetizione della coazione a ripetere, ci rendiamo conto di quali meccanismi possano aver influito sulle scelte affettive di Marco.
Semplificando molto: la scelta della fidanzata è stata fatta seguendo inconsciamente la logica che aveva caratterizzato il suo rapporto con la madre.
Freud diceva che in fondo non si fa che sposare e risposare sempre la propria madre (o il proprio padre). E anche se la frase faceva rifermento al desiderio edipico, possiamo utilmente utilizzarla anche qui, aggiungendo che non solo di somiglianze ( o di dissonanze, che è lo stesso) si è trattato, ma della possibilità di mettere in atto anche con la fidanzata le stesse modalità di rassicurazione che aveva utilizzato con la madre.
Al tempo stesso, anche la ragazza doveva portare dentro di sé quel tipo di insicurezza che avrebbe potuto placarsi solo con qualcuno che fosse stato disposto a fungere da elemento rassicurante proprio per quegli aspetti particolari. Insomma lei e Marco si sono attratti proprio come i poli opposti di una calamita.
Per lui fu quindi facile riuscire a rendersi indispensabile anche con lei: questo era il suo modo per essere sicuro dell’amore dell’altro: se le sono indispensabile non potrò essere lasciato, né alcun altro potrà essermi preferito.
Naturalmente tale tipo di ragionamento, se vogliamo chiamarlo così, rimaneva totalmente inconscio. Anche se sul piano cosciente lui era consapevole di quello che faceva, le motivazioni dei suoi atti, determinati dalla coazione a ripetere, gli erano ignoti.
Una volta instauratosi, un rapporto del genere ha bisogno però, per sopravvivere, di mantenersi nell’assoluta immobilità, perché qualunque movimento dell’una o dell’altro, provoca una rottura dell’equilibrio che in una persona che non è un intero, e che  non ha un equilibrio stabile per conto suo, genera paura e ansietà.
Dobbiamo provare a immaginare le due persone come se fossero incastrate così fortemente che un movimento dell’una provoca fastidio e dolore nell’altra, che inevitabilmente oppone resistenza. In teoria il movimento sarebbe possibile, in pratica no.  
All’inizio però il senso di incastro non si avverte: l’amore, la passione, l’avere accanto una persona che ci sostiene proprio là dove sappiamo di avere i nostri punti deboli, è del tutto sovrapponibile a quanto succede in ogni altra unione.
Quello che differenzia è che mentre nelle altre coppie un certo grado di libertà è possibile, nel senso che si può crescere, insieme o autonomamente, senza intaccare alle fondamenta la stabilità del rapporto, in questo non può avvenire.
Questa stasi può durare anche molto a lungo, e infatti il rapporto di Marco era durato immutabile per anni. Il motivo principale che impedisce che qualcosa venga messo in discussione è la convinzione di non poter vivere senza l’altro, che non ci sarà mai più nessun altro così.
E si può comprendere che più la condizione personale era di instabilità, e quindi l’incontro con l’altro ha procurato un insperato senso di completezza e stabilità, più il rapporto sembra senza alternative. E questo anche se macroscopiche condizioni non vengono più rispettate. Per esempio Marco, raccontando ancora della loro vita sessuale, aveva riferito che nel corso dell’anno precedente avevano fatto l’amore solo due volte.
Ma infine uno dei due, per il troppo dolore accumulato per via della scomoda posizione psicologica, per il senso di mancanza di libertà, o perché la rinuncia a parti di sé molto importanti non può essere portata avanti all’infinito, inizia a stancarsi.
Comincia a questo punto la ricerca di qualcosa che possa attenuare il senso di disagio, di insoddisfazione; il senso di inquietudine, che a volte può prendere anche la via del disturbo psicologico.

La crisi
E’ questo il momento della crisi. Ma date le caratteristiche del rapporto, il senso di ineluttabilità che ha assunto per entrambi, è molto difficile che si comprenda che proprio da esso può dipendere il malessere. Ci si agita confusamente, si accusa il partner di essere troppo o troppo poco presente, disattento o assillante, geloso o disinteressato.
Ma intanto uno spiraglio viene lasciato, si è in cerca, nella speranza che qualcosa accada. E a volte qualcosa accade. La vita è maestra nel creare l’imprevedibile, che si insinuerà proprio in quello spiraglio. A volte può presentarsi sotto la forma di un nuovo lavoro, come forse è accaduto con la ragazza di Marco.
Possiamo solo provare a immaginare cosa può essere successo in lei andando a lavorare. Forse si è sentita più utile e quindi più sicura? Forse è riuscita a vedere con più obiettività la sua realtà affettiva? Forse ha sentito che un’altra vita per lei poteva essere possibile? Forse tutte queste cose insieme e certo ancora altre, ma di una cosa possiamo essere certi: il suo essere tenacemente abbarbicata, invischiata in quel rapporto era stato alterato. Forse le sarà anche sembrato che le sue insicurezze, le sue “deficienze” tra virgolette, non la rendevano totalmente inadatta a vivere tra gli altri, come se potesse essere accolta solo da Marco, come se potesse trovare rifugio solo in lui, lui che la conosceva meglio e la capiva più di chiunque altro.
Di nuovo, se la stasi viene rotta, questo tipo di rapporto entra fatalmente in crisi.
Una cosa che vediamo quasi regolarmente in psicoterapia, se la persona in terapia vive un rapporto del tipo di quelli di cui stiamo parlando,  è che colei o colui che ha iniziato il percorso psicoterapico, per motivi magari indipendenti dal rapporto affettivo, ad un certo punto comincia a sentire il bisogno di cambiare qualcosa anche nel rapporto, inizia a pressare l’altro.
Ed il partner, che è escluso dalle dinamiche della psicoterapia, resiste, si lamenta, rimprovera l’altro di essere cambiato, di non essere più come prima.
A volte giunge a contattare il terapeuta chiedendogli spiegazioni: cosa è accaduto al compagno o alla compagna, cosa accadrà ancora? Con l’implicito rimprovero, magari mitigato dall’accondiscendente riconoscimento che il partner è migliorato sotto altri aspetti, che è colpa del terapeuta se ora  le cose tra loro non vanno più bene, che è colpa del terapeuta se ora l’altro dice che tra loro qualcosa deve cambiare. E di fatto è anche così.
Poiché la terapia deve fare in modo che si realizzi il vero Sé del paziente, allora è necessario che quanto intralcia questa realizzazione venga rivisto. E non si tratta di egoismo, come a volte l’altro membro della coppia può pensare, ma di essere fedeli a se stessi, di incarnare il detto nietzschiano del “diventa ciò che sei”.
Ma è inevitabile che, nel momento di cui stiamo parlando, la condizione di disequilibrio che vivono entrambi è grande perché l’uno comincia a sentire il rapporto come una gabbia, mentre l’altro, proprio per via del fatto che avverte i movimenti di disimpasto del partner, sente mancare il terreno sotto i piedi e più l’altro tenta di modificare certe dinamiche, di sganciarsi da quel tipo di incastro, più tenta di opporsi.
Per inciso è in queste situazioni che si creano le condizioni di base per il verificarsi degli episodi di stalking e di vere e proprie persecuzioni nei confronti del partner che si è separato. In questi casi chi non voleva la rottura, è convinto che la sua vita non potrà proseguire senza l’altro, è convinto che sia solo per un atto di cattiveria che l’altro lo ha lasciato, lo incolpa di tutte le sue sofferenze. Invischiandosi sempre più in questo meccanismo si può arrivare a punirlo per questa presunta cattiveria magari con la morte.
Di recente siamo venuti a conoscenza dell’omicidio-suicidio accaduto a Celano.
Si può immaginare che le dinamiche in atto in quella coppia non fossero molto diverse da quelle di cui stiamo parlando. A tanto si può giungere quando non si può vivere con e non si può vivere senza.
In questi casi spesso il movente è dato dalla gelosia, e l’uccisione rappresenta sia l’illusione di smettere di soffrire che il tentativo di impedire a qualcun altro  di impadronirsi di ciò che si ritiene indissolubilmente proprio. Ma l’orrore dell’atto e il terrore folle di non riuscire a immaginarsi senza l’altro, spalancano sovente anche le porte del suicidio.
Perché è proprio in questo rinnovarsi di un terrore senza nome, in questa paura della frammentazione del proprio Sé che l’altro aiutava a mantenere coeso (e la paura della frammentazione del Sé è la paura più grande che un essere umano possa provare),  che va ricercato il senso del grande dolore che vediamo quando questi rapporti si interrompono. Perché se da bambini è chi si prende cura, che consente la coesione del Sé, in questo tipo di rapporti, quando l’altro va via e smette di prendersi cura e di essere il contenitore delle angosce, allora, per chi resta, non c’è verso di sopravvivere in un universo che ridiviene popolato di figure ed emozioni sconosciute e terrificanti, dove si rinnovano i terrori infantili dell’essere soli.
L’immagine che mi rimandano le persone quando cose di questo genere accadono, è che loro si sentano come una mela che sia stata divisa a metà.  Se prima l’appoggio dell’altro costituiva l’altra metà della mela (di un’unità, ripeto, non di una coppia) come può ora una mezza mela rimanere in piedi? E si comprende allora che più precario era l’equilibrio prima che il rapporto si creasse, più indispensabile era il supporto dell’altro, e più diviene catastrofico il sentimento di perdita, più penoso il terrore di non potercela fare da soli, più tetro il senso profondo di abbandono, che si può giungere agli episodi limite che ogni tanto la cronaca riporta.

Finale
Comunque per Marco le sofferenze legate direttamente alla separazione diminuirono abbastanza velocemente. Anzi dopo un po’ di tempo ridivenne interessante per la sua ex per la quale, evidentemente, da un lato le dinamiche che la avevano spinta a quel tipo di scelta erano ancora attive, e dall’altro lato il cambiamento intervenuto nel frattempo in Marco, lo rendeva nuovamente appetibile ai suoi occhi. Si frequentano, e anche se lui nel frattempo ha avuto una breve storia con un’altra ragazza, non hanno ancora deciso se tornare insieme o no.
Siamo giunti alla fine, ci rimane però ancora un punto da chiarire: dove possiamo trovare quel tratto comune che unisce le storie di Marco e Anna Karenina?
In lui, come abbiamo visto, era attivo quel tratto che lo spingeva a trovare qualcuno che gli permettesse di sconfiggere il senso di solitudine e di inadeguatezza che proveniva dal suo passato, un pungolo che lo costringeva in un rapporto che invece conteneva e ripeteva le dinamiche del passato, che lo rendeva insicuro e ansioso, e che quando è terminato lo ha sprofondato nella disperazione e nella depressione.
Tolstoj non ci parla del passato di Anna, ma ci presenta una donna che, quando rinuncia alle convenzioni del tempo lasciando il marito ed innamorandosi di Vronskij, si condanna ad una vita di solitudine, solitudine che solo il rapporto con l’amante tempera. Quando il rapporto entra in crisi, Anna dice “Me l’aspettavo” quasi come se l’amore con Vronskij non fosse riuscito mai a rassicurarla nel profondo e, come ho accennato all’inizio, a fornirle quel senso di felicità piena, per quanto possa essere limitato il tempo della felicità. Il senso cupo della colpa è sempre aleggiato su di lei.
Ma il senso di colpa non è solo la risultante del tradimento del coniuge e dell’abbandono del figlio, il senso di colpa è anche e principalmente la conseguenza della mancata realizzazione degli aspetti ideali del proprio Sé, mancata realizzazione della quale il tradimento e l’abbandono del figlio possono essere letti come una conseguenza.
Diceva Kohut che “non realizzare gli scopi impliciti nel proprio Sé è tragico”. Il senso di colpa  che ne deriva è un pessimo compagno di viaggio. Per sua natura assume la veste del persecutore interno, che, come il pungolo di Marco, incita e svaluta allo stesso tempo, non perdona niente e  avvelena profondamente il rapporto con la vita e con gli altri, tanto che si farebbe qualunque cosa per sfuggirgli.
Mentre Anna compie il viaggio di rientro a Mosca, quel viaggio di cui ho parlato all’inizio e che è descritto come un delirio, pensa “Non ti permetterò di tormentarmi”. E’ una minaccia che non è  rivolta a Vronskij, ma a chi le impone di tormentarsi, a chi le impone di combattere contro un dolore per lei non emendabile. Ha sacrificato la parvenza di sicurezza che aveva raggiunto, ha cercato l’amore, ma sente il dolore del fallimento. Il respiro di Anna è ormai il sussurro di chi vede nella severità verso di sé la risposta a un tradimento percepito come intimo, a un tradimento verso se stessa.
Dopo essersi gettata sui binari ha un moto di ripensamento, ma subito il treno l’afferra per la schiena, inesorabile e lei sussurra “Signore, perdonami tutto”.
In una favola Esopo racconta di una vespa, che posatasi sulla testa di un serpente, lo tormentava, pungendolo senza tregua. Quello, sconvolto dal dolore, non riuscendo a vendicarsi della sua nemica, cacciò la testa sotto la ruota di un carro e si uccise.
Anche Anna e Marco, seppure in modi diversi, hanno tentato di sfuggire alla loro vespa.

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