347 687 5232

0863 26138

walter.creati@alice.it

Via Muzio Febonio n° 28

67051 Avezzano (AQ)

Il tema che andremo ad affrontare oggi riguarda il grande capitolo delle dipendenze. Dipendenza è termine che indica chiaramente un legame con una persona o una cosa nei confronti della quale si ha un rapporto di sottomissione.
Nei paesi anglosassoni dipendenza è tradotto con addiction, termine a sua volta derivato dal latino addictus, che nella Roma antica indicava la condizione di chi era diventato servitore o schiavo perché non aveva pagato un debito. Attualmente il campo delle dipendenze si è molto allargato rispetto a quelle che possiamo definire le vecchie dipendenze (alcol, fumo, farmaci e droghe) e che riguardano il bisogno ripetuto e coercitivo di assumere una sostanza. Le nuova dipendenze fanno riferimento a comportamenti che generano dipendenza senza l’assunzione di una sostanza esterna.

E’ il caso del gioco d’azzardo, dello shopping compulsivo, della dipendenza da Internet e dalla pornografia, ma anche dal sesso o dal lavoro. Infine è sempre molto diffusa la più classica e antica delle dipendenze, che è quella di tipo affettivo.

Preliminarmente, ed in linea generale, possiamo dire che un elemento che accomuna tutte le dipendenze è che esse sono utilizzate per tener lontano il dolore psichico, ma il rimedio che è rozzo ed immediato, perché non presuppone nessun percorso, nessuna ricerca o studio, finisce per rivelarsi peggiore del male causando più danni e malessere di quelli che voleva evitare.
Oggi ci soffermeremo principalmente sulla dipendenza da alcol e droga. Il titolo del seminario fa riferimento anche alla dipendenza da cibo, perché tutte sono dipendenze caratterizzate dal mettere dentro qualcosa, o dal rifiutarsi di farlo, come nel caso dell’anoressia. Ma nel corso della preparazione mi sono reso conto che introdurre anche l’elemento cibo avrebbe reso troppo lunga l’esposizione.
Alla fine verrà anche presentato un caso che racconta della dipendenza da alcol e droga. 
Intanto stabiliamo quando un’abitudine o un comportamento può essere definito dipendenza.
L’uso di sostanze può anche non comportare alcun tipo di problema. Ad esempio tantissimi consumatori abituali di alcol non manifesteranno mai nella loro vita problemi correlati con l’alcol. A volte l’uso può trasformarsi in abuso, quando per esempio avviene in condizioni che collidono con precetti normativi, sociali o sanitari, come la guida in stato di ubriachezza, ad esempio o come quando, semplicemente, si esagera. 
La dipendenza invece è la necessità di assumere la sostanza per compensare una alterazione dell’equilibrio biologico e psicologico indotta dalla sostanza stessa. E’ questo il carattere peculiare della dipendenza: l’assunzione della sostanza ridona alla persona in astinenza un equilibrio apparente, equilibrio che sembra restituire una condizione di normalità.
Non si considera dipendenza la necessità di assumere una sostanza se questa non corregge uno stato di squilibrio da essa stessa determinato. Ad esempio non possiamo considerare dipendenza l’astinenza derivante dall’uso di oppiacei nella terapia del dolore neoplastico; questo dolore non è stato indotto dall’assunzione della sostanza, esisteva già prima. Né si fa più distinzione tra dipendenza fisica e psichica: i sistemi interessati dalla dipendenza rappresentano l’anello di congiunzione tra biologico e psicologico, tra mente e corpo.
Soffermiamoci in primis sulla dipendenza da droghe, che è quella che meglio si presta, per le sue caratteristiche, a riassumerne e manifestarne i caratteri salienti. 
L’incontro con la sostanza che causa la dipendenza è profondamente trasformativo: la persona fa una esperienza che lo cambia, che diviene un riferimento non cancellabile. Ogni esperienza successiva viene inevitabilmente paragonata a quella, e se non adeguatamente elaborata ne uscirà perdente. Cos’altro infatti dona un tale piacere e un tale dolore se manca? Perché rinunciarci? Anche quando la vita diventa completamente rovinata dalla droga, al tossicodipendente sembra che niente possa essere scambiato con essa…. 
Inoltre le stesse modalità di approvvigionamento della droga sono così pericolose ed emozionanti, che anch’esse divengono parti in commedia e recitano un ruolo amplificante gli effetti della sostanza, rendendola ancora più appetibile.
Queste caratteristiche connesse all’uso della droga modificano sostanzialmente non solo l’approccio psicologico alle vicende della vita, ma in qualche modo omologano i tossicodipendenti nei loro comportamenti rendendoli molto più simili tra loro di quanto lo erano prima della tossicodipendenza. Essi condividono il bisogno compulsivo di introdurre la sostanza, di annullare qualsiasi distanza tra sé ed essa, qualsiasi ostacolo; l’astinenza, che corrisponde a vissuti e sentimenti depressivi, genera un vuoto che non è colmabile che dalla sostanza. Tutto il resto appare grigio e sfocato, senza valore. Con la droga si istaura un rapporto fusionale profondissimo, totalizzante, che niente può sostituire. Talmente appagante che anche quando per scelta si rinuncia ad essa la dimensione nostalgica è fortissima. E nel caso di astinenza prolungata, come nel caso di un amore finito, il tempo tende a scolorire gli aspetti negativi e rinforza quelli postivi, creando la possibilità di ricadute. Il soggetto ha la sensazione di non vivere, di trovarsi in un limbo dove tutte le sensazioni sono colorate negativamente. 
Questi aspetti caratterizzano specificamente i vissuti psicologici e comportamentali dei tossicodipendenti, e li accomunano a prescindere dalla loro storia personale, dalle condizioni sociali, culturali e familiari perfino dal tipo di sostanza assunta. Anche se tra un alcolista e un eroinomane possono esistere differenze caratteristiche, tuttavia quello che li unisce è molto più di quello che li divide.
Ad esempio gli aspetti sociali spesso associati alla tossicodipendenza quali comportamenti devianti e criminali, trascuratezza per il proprio aspetto e la propria salute, senso di irresponsabilità, etc. hanno a volte un ruolo confondente, spingendo a considerare diverse le problematiche del tossicodipendente benestante e colto (in cui si tende a riconoscere una psicogenesi significativa) da quelle del tossicodipendente appartenente a classi sociali inferiori per il quale si privilegiano interventi rieducativi o restrittivi. Ma il nucleo psicopatologico rimane lo stesso e anche un piano terapeutico deve essere modulato in relazione alle stesse identiche domande fondamentali.
Con l’alcol di solito si comincia molto presto, a volte in famiglia, complice una cultura che afferma che durante l’allattamento le donne devono bere birra perché fa latte o che un bicchiere di vino a un bambino di 5/6 anni fa bene perché il vino fa sangue. I pediatri parlano ormai di baby dipendenza, ci sono ragazzi che presentano sintomi di dipendenza alcolica prima dei 14 anni e il picco d’uso tra gli adolescenti si situa tra i 17 e i 19 anni, quando prima dei 18 anni non ci sono ancora gli enzimi che consentono la metabolizzazione dell’alcol, e quindi l’effetto è molto più forte. A bere si comincia spesso per caso, per stare con gli amici, per sentirsi uguali più adulti. Poi arriva anche l’effetto piacevole: ci si sente più sicuri, più liberi, si socializza più facilmente, soprattutto scompaiono le ansie, le insicurezze, il senso di inadeguatezza e il dolore che provocano le difficoltà della vita. Il desiderio di riprovare questo stato spiega il binge drinking del fine settimana, lo sballo: il bere fino a stordirsi per evitare che le sensazioni spiacevoli possano anche solo riaffacciarsi.
Eppure l’alcol è una iattura: è la prima causa di mortalità giovanile sotto i 24 anni, e anche quando l’eroina era sugli scudi (negli ultimi tempi è un po’ decaduta) con i suoi quasi 1000 morti l’anno, i morti provocati dall’alcol erano venti volte tanto o direttamente per malattie ad esso legate, cirrosi, epatite etc., o per gli incidenti derivanti dal suo uso.
Anche i primi contatti con gli spinelli seguono la stessa strada del consumo di alcol, anzi molto spesso sono consumati insieme, l’uno apre la porta all’altro e viceversa. Nel caso dell’erba, che comunque ha un grado di pericolosità molto minore dell’alcol, l’aspetto ludico è certamente in primo piano e nella gran parte dei casi le esperienze con l’erba sono temporanee e senza importanza. Quello che invece può segnare la differenza, come vedremo meglio tra poco, è il significato suppletivo che può assumere l’uso di sostanze. 
E’ importante che i genitori, che rappresentano la prima risorsa nella lotta alla tossicodipendenza e all’alcolismo, prestino molta attenzione e si preoccupino se notano un cambiamento nelle abitudini, nelle amicizie, se c’è un calo nel rendimento scolastico etc.

TIPI DI DROGA
Passiamo ora in rassegna i vari tipi di droga, dando per scontato che dell’alcol abbiamo tutti un’idea abbastanza chiara.
La marijuana è una droga ottenuta dalla canapa indiana (cannabis indica), le cui foglie essiccate vengono fumate o ingerite. L’hashish (il cosiddetto fumo) è invece ottenuto dalla resina della pianta, ha un contenuto di principio attivo 8 volte superiore. Anch’esso può essere fumato o ingerito. Gli effetti indotti dall’uso di cannabinoidi sono svariati e hanno differente intensità a seconda del soggetto e della quantità di principio attivo THC presente. I principali effetti riguardano rilassamento psichico e muscolare, analgesia, euforia, diminuzione degli stati d’ansia, anche se a volte viene invece riferito un aumento dell’ansia e raramente il manifestarsi di fenomeni psicotici passeggeri o di effetti psichedelici. Di recente vengono commercializzate varietà con concentrazioni sempre maggiori di principio attivo con evidenti ripercussioni sull’entità degli effetti. 
La coltivazione e il consumo della canapa sono quasi dappertutto illegali, anche se in diversi paesi si stanno portando avanti esperimenti di legalizzazione o liberalizzazione con risultati incoraggianti. Credo che anche per quanto riguardo la legalizzazione della canapa vadano fatte le stesse considerazioni che si fanno per le droghe legali, come alcol e tabacco, o per quelle attività che generano dipendenza senza ingestione di sostanze come il gioco d’azzardo o le altre elencate prima. In altri termini non è comprando un gratta e vinci che si contrae il cosiddetto gambling (la compulsione al gioco d’azzardo), né bevendo un bicchiere di vino o fumando uno spinello che si diventa preda del craving (termine con il quale si intende il forte ed irrefrenabile bisogno di droga o di alcol che si manifesta durante l’astinenza). In questo senso è possibile provare anche a dare risposta alla domanda che si pone spesso se la cannabis rappresenti una droga di passaggio, se cioè un suo uso in adolescenza condurrà all’utilizzo delle droghe pesanti. Sono due i fattori di cui tenere conto: da un lato la quantità. Se infatti la letteratura scientifica è abbastanza discorde sulla dannosità dei cannabinoidi (da qui uno dei motivi della resistenza alla legalizzazione o liberalizzazione) è però concorde sulla dannosità dell’abuso. Se l’uso è a scopo ludico, divertente, se le quantità non vengono costantemente aumentate, allora il problema del passaggio alle droghe pesanti non si pone e vale l’esempio del gratta e vinci di prima. Se invece ci si avvicina ad essa utilizzandola come sostituto atto a riequilibrare i propri stati interni, allora il passaggio diviene molto probabile proprio per le caratteristiche stesse dell’assunzione delle droghe, che per ottenere lo stesso effetto necessitano di essere aumentate nelle dosi e allora anche l’approccio iniziale è tale che in breve tempo si può instaurare una dipendenza. 
Quindi quale secondo e più importante fattore, come per tutti gli altri casi di dipendenza, è fondamentale il motivo per cui si inizia, la personalità premorbosa, diciamo. 
L’eroina, una droga alla quale sono giustamente legate le peggiori immagini riguardanti la tossicodipendenza, è un derivato dell’oppio, a sua volta ricavato dalla resina collosa che trasuda dai semi di papavero. L’oppio è stato usato per secoli (veniva fumato, infuso o mangiato), per le sue qualità analgesiche, euforizzanti e sedative. La trasformazione dell’oppio in morfina e poi in eroina e la possibilità di iniettarlo ne ha potenziato enormemente l’effetto rendendolo inoltre immediatamente attivo. Le sostanze che provocano maggiore dipendenza sono infatti proprio quelle che agiscono prima. Per esempio gli eroinomani preferiscono l’eroina alla morfina non perché il loro effetto sia diverso (quando passa la barriera ematoencefalica infatti l’eroina viene trasformata in morfina), ma perché gli effetti sono più immediati. 
Tali effetti, specie nelle prime assunzioni, durano circa due ore. Immediatamente si ha il tipico flash della durata di circa 1 minuto, che provoca un piacere orgasmico in tutto il corpo, senso di calore e depressione dei centri respiratori. In seguito sopravvengono rallentamento del pensiero, cambiamento dell’umore, dilatazione o accorciamento del senso del tempo. Dopo circa un’ora si manifesta il massimo effetto caratterizzato da senso di pace e rilassamento totale, esaltazione interiore e euforia, anestesia fisica e psicologica, sensazione di vivere quasi un’esperienza mistica. Come effetti collaterali negativi si hanno sudorazione fredda, vomito, palpitazioni cardiache, difficoltà respiratorie. In caso di astinenza sopraggiungono depressione, agitazione, crampi, diarrea. All’inizio per uso ludico la dose può essere di circa 5 mg (per una dose letale ce ne vogliono 100 mg, venti volte di più). Ma la tolleranza (che è l’assuefazione delle strutture nervose alle dosi e che per essere adeguatamente eccitate richiedono quantitativi sempre maggiori) induce i tossicomani ad assunzioni sempre più massicce fino a 5 grammi al giorno (divisi in più dosi) quindi ad un quantitativo 50 volte maggiore della dose letale iniziale. Questo il motivo delle morti per overdose. 
Si sono molto diffuse negli ultimi tempi anche le droghe sintetiche: quelle che provocano stati allucinati tipo la vecchia LSD, altre tipo l’ecstasi, le amfetamine o la Ketamina che hanno effetti disinibenti e facilitanti,  lo speed che è un composto di amfetamine e cocaina o il superpill che è un composto di ecstasy e viagra e si può comprendere facilmente a cosa serva. Una menzione speciale va al crack che è sostanzialmente cocaina che viene fumata, entra in circolo prestissimo, nel giro di 10/15 secondi, ma può essere ancora più pericolosa. 
Per ultimo parliamo proprio della cocaina, la sostanza pesante più utilizzata oggigiorno. Viene estratta dalle foglie della coca principalmente in America Latina. Anche le foglie di coca, come l’oppio, sono state utilizzate per millenni per le loro capacità calmanti, anestetizzanti e di aumento della capacità di sopportare la stanchezza, ma come per l’eroina, la trasformazione in cocaina ne ha moltiplicato gli effetti. Essa provoca uno stato euforico, maggiore facilità di relazione, eliminazione del senso di stanchezza, del sonno, della fame, un aumento della libido. Quando finisce l’effetto si ha un crollo verticale, con grande senso di spossatezza, incapacità di dormire e profonda depressione. 
Per le sue caratteristiche, per il tipo di assunzione facile e veloce, “pulita”, per il suo aspetto etereo, non pericoloso, per il fatto di facilitare la comunicazione e di non dover essere consumata in solitudine o in luoghi squallidi e sporchi, la cocaina ha scalato velocemente le classifiche di vendita, in alcuni ambienti è diventata quasi uno status symbol, ed in breve è assurta al ruolo di droga pesante più diffusa a livello planetario. 
A proposito di questa diffusione, verranno ora lette le prime pagine dell’ultimo libro di Roberto Saviano dedicato proprio alla cocaina intitolato “Zero, zero, zero”.
Generalmente le tossicomanie “pure” da cocaina (cioè non associate all’uso o abuso di altre sostanze) si manifestano in persone che presentano un livello economico e di integrazione sociale buono, al contrario degli eroinomani che in genere provengono da classi sociali svantaggiate. Il cocainomane riesce normalmente a tenere tutti all’oscuro della sua condizione, e il suo buon livello di integrazione può essere mantenuto fino al momento di crisi, coincidente normalmente con la fine della disponibilità economica, di problemi sul lavoro o di azioni illegali.
Le caratteristiche stesse della cocaina fanno sì che spesso dietro ad essa troviamo una storia di ricerca del piacere, del divertimento, a differenza di quanto succede con gli eroinomani dove il ricorso alla sostanza appare più come tentativo di autocura rispetto alle difficoltà personali. Ma questa differenza è più apparente che reale, come vedremo.
Comunque proprio queste peculiarità fanno sì che i tossicomani da cocaina abbiano maggiore difficoltà a rendersi consapevoli del loro bisogno d’aiuto fino, appunto, alla crisi che irrompe inaspettata, rappresentando a volte un’occasione di potersi fermare e riflettere su se stessi, cercare una relazione d’aiuto e prendersi uno spazio di cura per sé.   

ASPETTI PSICOLOGICI
Soffermiamoci ora sugli aspetti psicologici che riguardano le dipendenze.
La dipendenza non entra nella storia dell’uomo con le sostanze, è qualcosa con cui si è sempre coinvolti, sin dalla nascita, è la condizione iniziale di sopravvivenza e ci accompagna per tutta la vita: è la capacità di vivere insieme, di interiorizzare i legami e contemporaneamente di porsi tra gli altri differenziandosi. Dato che l’adolescenza è il periodo in cui si ricapitolano e vengono al pettine i nodi che hanno caratterizzato la vita affettiva e relazionale fino a quel momento, dobbiamo prendere in considerazione una stretta connessione tra una dipendenza affettiva conflittuale (base di ogni disturbo psichico) e l’uso di sostanze stupefacenti, dato che è proprio in questo periodo che solitamente si inizia ad usarle.
Approfondiamo questo aspetto. La dipendenza totale dalla madre è la condizione di sopravvivenza iniziale. Crescendo il desiderio e la necessità di diventare più autonomi aumentano fino al momento dell’adolescenza, quando le esigenze di crescita e indipendenza entrano in conflitto col persistente attaccamento ai genitori. E’ un momento cruciale: più il desiderio di autonomia, il bisogno di altri al di fuori della famiglia, le spinte sessuali si fanno sentire, più la paura di affrontare il nuovo, l’ignoto, senza la protezione genitoriale, mette paura. In questo periodo si definiscono in forma stabile sia l’identità sessuale che il senso del proprio vero Sé, per cui la dipendenza familiare è temuta e vissuta come minacciosa per la propria identità. Al tempo stesso l’ingresso nel mondo può risultare difficile e frustrante e quindi avere la certezza di poter ogni volta tornare nel nido per recuperare le forze in un ambiente che si conosce bene, è rassicurante. In questo contrasto tra l’eccitamento fornito dal nuovo, le difficoltà che esso presenta, la precarietà di un assetto narcisistico che continuamente viene messo alla prova, il ricorso alle sostanze può rappresentare una delle modalità di risposta per ridurre la tensione, per fuggire dall’ansia e dalla depressione. In altri termini l’utilizzo di sostanze stupefacenti può essere un modo per sedare il conflitto inerente le relazioni ambivalenti, per lenire il dolore della ferita narcisistica che si manifesta nel sentimento di dipendenza conflittuale dall’oggetto esterno, cioè i coetanei e tutto il mondo nuovo che gira loro attorno, ma che rinvia a quella non ancora risolta nei confronti degli oggetti genitoriali.
La droga, il bere possono diventare un mezzo per padroneggiare gli scambi tra sé e l’oggetto e stabilire distanze tollerabili. Ma le sostanze possono anche servire per migliorare le performances in campo scolastico, sportivo e ricreativo, ed ottenere così maggiori rifornimenti narcisistici per rassicurare un Io sotto pressione.
Poiché però l‘adolescenza è un periodo che attraversano tutti ma non tutti diventano tossicomani o alcolisti, cerchiamo di capire se possono esserci delle particolarità caratteristiche nella storia di queste persone. Cominciamo col dire che l’adolescenza, più che le altri fasi di passaggio della vita, si affronta bene se ci si arriva bene, cioè con un equilibrio sufficientemente buono, che significa, dunque, un giusto equilibrio tra dipendenza e indipendenza, una giusta distanza dagli oggetti d’amore infantili. Essere capaci di tenere una giusta distanza è un punto di arrivo fondamentale.
Abbiamo tutti esperienza, per esempio, della fase del bambino quando non tollera alcuna distanza dalla madre, quando non può essere lasciato solo. Il periodo in cui il bambino non ha ancora sviluppato la cosiddetta costanza d’oggetto, cioè la certezza che la madre esiste e si prende cura di lui anche se in quel momento non è presente. Per il bambino abituato alla costante presenza della madre, ogni situazione che ne preveda l’assenza apparirà inaccettabile, e dovrà provvedere a sostituirla con qualcosa che la rappresenti e sia sempre disponibile. Sarà l’orsacchiotto o la coperta di Linus, o un altro di quelli chiamati oggetti transizionali, oggetti cioè che stanno a metà tra la madre e il mondo esterno e che consentono il passaggio da questa a quello e viceversa. 
In normali condizioni di sviluppo la situazione evolverà positivamente, il bambino riuscirà ad interiorizzare le relazioni importanti, a renderle stabili, e questo gli consentirà di creare dentro di sé una base sicura, un attaccamento sicuro che funzionerà sia da trampolino di lancio per le esplorazioni del mondo, sia da rifugio nel momento di riposo del guerriero.
Ma se per qualche motivo questo processo non fluisce normalmente, perché le condizioni sociali, culturali e psicologiche di coloro che dovrebbero favorirlo non concorrono a ciò, se il bambino non avrà accanto a sé persone in grado di prendersi cura di lui aiutandolo a crescere e rendersi autonomo, le cose potrebbero complicarsi molto. 
Quando si parla di condizioni che non favoriscono adeguatamente lo sviluppo non ci si riferisce a quelle macroscopicamente evidenti come i maltrattamenti o gli abusi, ma a quelle situazioni che possono a grandi linee essere ricondotte all’interno di quella che chiamiamo non responsività, inadeguatezza nelle cure parentali o, come dicono gli Inglesi con un termine fortemente evocativo, “neglect” termine che sta a indicare trascuratezza, mancanza di attenzione, negligenza, omissione. In sostanza agenti di cure parentali che non sono in sintonia con i bisogni del bambino. Ed un bambino del quale non si riconoscono i bisogni, che non viene sufficientemente aiutato a crescere, non sviluppa prima le sue capacità, come si potrebbe erroneamente essere portati a credere, ma le sviluppa più tardi, se mai le sviluppa, e in ogni caso le sviluppa male.
Sentirà come una mancanza, una zoppia che lo obbligherà a ricorrere a dei sussidi che gli consentano di svolgere i compiti che la vita gli porrà dinanzi. E questi sussidi dovranno avere le qualità dell’orsacchiotto dell’infanzia, dovranno avere quel ruolo sostitutivo, intermedio tra la madre e la realtà, che egli allora attribuiva ad esso.
E’ in questo scenario che può inserirsi la sostanza. Ad essa, sempre presente e capace di nutrire e rassicurare, può essere affidato il compito di sostituire le figure dell’infanzia per avere quel supporto di cui ci si sente carenti. 
“L’utilizzo di una droga (Jeammet, 1992) rimanda sempre ad un assetto perverso perché viene individuato un oggetto sostitutivo: questo oggetto deve essere sempre presente, sempre disponibile e quindi proteggere dalle angosce di separazione, ma non può essere interiorizzato. Esso resta in superficie, procurando sensazioni, non emozioni”. E’ da sottolineare l’aspetto della pronta disponibilità della sostanza che mette in evidenza Jeammet, perché proprio il suo essere un sostituto di relazioni profonde obbliga alla continua ripetitività dell’assunzione. 
La droga o l’alcol cominceranno ad essere utilizzati come agenti deresponsabilizzanti per non sentire le proprie incapacità. Non si tratta solo dell’esigenza di stordirsi e dello “sballo” quindi, come può apparire ad un primo sguardo, ma spesso l’uso della sostanza rappresenta un maldestro tentativo di automedicazione per fronteggiare un profondo disagio emotivo e per migliorare l’adattamento sociale. Le teorie psicodinamiche più moderne tendono a considerare il comportamento tossicomane proprio come un riflesso dell’incapacità di prendersi cura di sé. 
Comincia così il cammino che conduce questi ragazzi a instaurare un sistema di finzioni atto a difendere il precario senso d’identità raggiunto, negandone gli aspetti problematici. In tutti coloro che fanno uso di sostanze si evidenzia una condizione di vulnerabilità narcisistica, che i parenti e gli insegnanti tendono a descrivere come permalosità esagerata, associata a vissuti di vergogna, umiliazione e mortificazione, ma anche di rabbia come conseguenza di aspettative disattese. Marcata in tutti è l’ansia da prestazione. In questo senso, ad esempio, il ricorso alla cocaina che è la droga della forza e della potenza, può attrarre molto gli adolescenti che sono alla ricerca di una cura della vulnerabilità. Infatti il benessere indotto dalle sostanze non permette all’individuo di capire, di affrontare e tentare di risolvere i suoi problemi, ma lo induce all’abuso per poter rivivere le sensazioni piacevoli che lo introducono in un mondo che, seppur fittizio, è però rassicurante e a tratti esaltante. Perché i tossicodipendenti o gli alcolisti, che noi vediamo persi o barcollanti ai margini delle strade, condividono invece la loro scelta come una finzione eroica e come una protesta verso un mondo ostile. Questo artificio consente loro la recitazione di una superiorità emarginata e un disprezzo per i cosiddetti normali, nei confronti dei quali avanzano le loro esigenze con arroganza, colpevolizzandoli. Mostrano un diritto al risarcimento che li autogiustifica nella loro tendenza alla menzogna assolutoria, anche di fronte ad azioni illegali, come se a loro tutto fosse dovuto e permesso. 
Insomma di “pregi” le sostanze ne hanno tanti e questi, uniti alla loro pronta diponibilità, spiegano le possibili ricadute anche nel corso delle psicoterapie, che perciò risultano difficili: la sostanza è sempre a portata di mano e qualunque difficoltà, qualunque intoppo nel processo terapeutico, può ricondurre verso la antica strada. Inoltre nei casi di dipendenze patologiche molto spesso si ha a che fare con la cosiddetta “doppia diagnosi”, cioè dipendenza da sostanze che si somma ad un disturbo psichico. Esiste infatti una correlazione tra abuso di sostanza e disturbi della condotta, comportamenti antisociali o disturbi psichiatrici superiore al 50%. Inoltre studi longitudinali hanno dimostrato che, negli studenti della scuola secondaria, la depressione del tono dell’umore precede il primo consumo di marijuana e di altre sostanze ma anche che l’abuso di sostanze in età evolutiva può slatentizzare un disturbo psichiatrico.
Per terminare, prima di passare alla lettura del caso clinico, vorrei spostare l’accento sulle ricerche fisiologiche che validano “scientificamente” le nostre teorizzazioni sulla clinica.

FISIOLOGIA
Alcuni ricercatori studiando il modo di funzionamento degli antidepressivi, in particolare di quelli che impediscono un troppo veloce riassorbimento dei neurotrasmettitori come SSRI e SRNI hanno trovato che la serotonina, che è detto anche l’ormone del buonumore, funziona bene se il genotipo del suo trasporter è del tipo long-long, se invece è del tipo short-short il trasporter non funziona come dovrebbe e la serotonina viene riassorbita troppo. Sull’altro neurotrasmettitore interessato anch’esso alle sensazioni di piacere, la dopamina, hanno riscontrato che perché ci sia una buona ricaptazione il suo recettore D2 deve essere di un certo valore, se è più basso, la dopamina non viene assorbita come dovrebbe. Questi dati riguardano quanto stiamo dicendo perché chi li presenta sono sia i depressi resistenti alle cure farmacologiche che gli utilizzatori di sostanze, in particolare i cocainomani. I ricercatori si sono anche chiesti se queste variazioni fossero di origine genetica o epigenetica (cioè variazioni che troviamo a livello genico ma che sono intervenute dopo la nascita). Per verificarlo hanno condotto una serie di esperimenti. In uno hanno preso un gruppo di topolini con livello di D2 normale, li hanno separati dalla madre e tenuti in isolamento senza cure parentali, misurato il D2 dopo qualche tempo tutti lo presentavano basso. Una volta cresciuti, in quelli che da adulti erano diventati dominanti, il livello di D2 si rialzava. Messi in una gabbia da esperimento dove la pressione di una leva elargiva cocaina, quelli con D2 alto la prendevano solo una volta, quelli con D2 basso ne facevano un uso continuo.
Altro esperimento: delle femmine di ratto che presentavano D2 normale sono state messe a contatto con individui aggressivi, in seguito mostravano alterazioni del D2 e, cosa ancora più impressionante, trasmettevano anche alla prole queste variazioni epigenetiche.
Ancora, una scimmia macacus rhesus allevata senza cure materne, presentava un alto livello di cortisolo, che è il cosiddetto ormone dello stress. Di fronte alla possibilità di bere acqua o vino, sceglieva il vino sbronzandosi per bene, al contrario degli altri individui che non erano stati allevati in isolamento, che preferivano l’acqua.
Poiché serotonina e dopamina sono neurotrasmettitori che afferiscono al nucleo accumbens, che è la struttura cerebrale che si trova al centro del cervello e che è la principale responsabile delle sensazioni di piacere, se esse non arrivano in misura sufficiente, per provare piacere si può ricorrere a qualcosa che offra una stimolazione suppletiva. Il guaio è che una volta che il nucleo accumbens si è abituato a rispondere a sostanze diverse, diviene sensibile solo a queste e le altre possibilità di provare piacere vengono notevolmente inibite. Così se noi fossimo cocainomani, la vincita della lotteria o la vittoria della squadra del cuore ci darebbe un piacere infimo rispetto ad un tiro. 
E si è trovato che sia chi fa uso di sostanze sia chi mostra sintomi depressivi resistenti ai farmaci mostra un livello di D2 basso e di trasporter SS in misura doppia rispetto al resto della popolazione. 
E perché non venga sottovalutata l’influenza delle buone cure materne e parentali nel far insorgere o meno questi problemi, uno studio in Moldova, dove in interi distretti i bambini sono a carico di padri e nonni perché le madri sono tutte in Europa o in Russia a fare le badanti, queste stesse percentuali di alterazioni epigenetiche sono state riscontrate nei bambini.
Tali ricerche confermano quanto era già emerso a livello clinico e cioè che in presenza di cure parentali adeguate, si riducono le possibilità che si verifichino quelle alterazioni che potrebbero condurre da adulti ad una particolare sensibilità nei confronti delle sostanze, oltre che a vissuti depressivi e resistenza ai farmaci, anche in caso di danno organico esistente, perché ne riducono gli effetti. Al contrario cure parentali inadeguate potrebbero far insorgere tali alterazioni epigenetiche, o sommarsi ad un corredo genetico già carente. 
Confermano inoltre anche quanto visto a proposito della doppia diagnosi e della correlazione tra abuso di sostanze e disturbi psichici.

CASO CLINICO
Marco ha deciso di smettere dopo una violentissima scenata notturna: sua madre e suo padre lo stavano aspettando svegli, ma non avevano fatto finta di non sentirlo come molte altre volte. Lui credeva che si fossero ormai rassegnati ai suoi ritorni all’alba, ma quella volta si erano alzati e lo avevano affrontato con una determinazione diversa e lui, pieno di alcol e cocaina, quella volta, a differenza del passato, aveva accettato le loro richieste di smettere. Qualche giorno dopo si erano recati da uno psichiatra che gli aveva dato dei farmaci per tenerlo lontano dall’alcool, gli aveva rappresentato la necessità di una psicoterapia e gli aveva fatto il mio nome. Lo incontro una decina di giorni dopo e in questi giorni è stato in astinenza, ma è convinto che non ce la farà. Ha 25 anni e gestisce un negozio. E’ l’unica cosa che fa al di fuori del bere e drogarsi. Gli unici amici che frequenta sono quelli con cui si sballa, e non li vede mai al di fuori di questo contesto. Ha una ragazza, ma anche quando sta con lei è quasi sempre fatto.
I primi incontri sono caratterizzati dalla presenza o meglio dalla mancanza della droga. Il tono è molto depressivo, non si parla che di essa, di quanto era divertente usarla, di come faceva stare bene, di come ora niente abbia significato, di quanta invidia prova nei confronti di chi continua ad usarla, di come si senta solo, ora che gli amici che frequentava non li vede più. La sofferenza maggiore la prova nel fine settimana, quando anche la mancanza del lavoro contribuisce al senso di vuoto e disvalore. E’ convinto che non potrà mai esserci niente in futuro che lo farà stare così bene. Quando il rimpianto comincia a lasciare un po’ di spazio per altro, comincia a raccontare come trascorreva le sue giornate, come si procurava la roba.
Vive in un paese del circondario dove gestisce un negozio di varie e alimentari. Nel paese era facile procurarsi da bere, ma per la cocaina doveva spostarsi in un centro vicino più grande. Lì si procurava la scorta anche per il giorno dopo. Mi fa il resoconto dettagliato della ripartizione delle “botte”: la prima subito dopo il caffè, la seconda prima di uscire di casa, la terza prima dell’apertura del negozio e così via. La sera, dopo la chiusura, si spostava nel centro vicino e cominciava anche con l’alcool. Andava avanti bevendo e sniffando per tutta la notte, smetteva qualche ora prima dell’alba, per permettere alla coca di fargli abbassare un po’ il fuori giri. Solo allora rientrava a casa e, se riusciva, dormiva un po’. Era andata avanti così per molto, fino a quella mattina in cui i genitori, che evidentemente non ce la facevano più a aspettare svegli con il cuore in gola fino a sentire la chiave che girava nel portone, non lo avevano affrontato.
A proposito del lavoro, bisogna dire che sorprendentemente, anche per lui, non c’era stato un giorno di assenza e neppure un ritardo nell’apertura del negozio neanche nel periodo più buio, quando tornava tardissimo e andava a lavorare dopo aver dormito poche ore. Anche quando non era riuscito a chiudere occhio, la serranda veniva tirata su sempre puntualmente. Come se il lavoro rappresentasse l’unico elemento non compromesso dalle sostanze, dal quale potesse ricavare un ruolo “rispettabile”, un’identità. Qualcosa che desse un senso e un valore alla sua vita. Quel negozio era stato di uno zio della madre, da bambino ci aveva passato interi pomeriggi, era un rifugio e tante volte con lo zio si erano detti che avrebbe continuato lui l’attività. Forse uno dei pochi sogni infantili che sentiva di star realizzando.
Dopo qualche tempo inizia a raccontare come era cominciata la storia con l’alcol e la droga. 
L’ingresso alla scuola superiore era stato molto difficile. Mancava spesso, non si sentiva integrato, non riusciva ad instaurare un rapporto né con i compagni né con i professori e alla fine venne bocciato. Anche da piccolo aveva sempre avuto problemi con gli amici: mai una comitiva né un amico del cuore. Verso la metà dell’anno successivo aveva cominciato a vedersi con qualcuno al bar dopo la scuola, ma se ne stava spesso in disparte senza parlare. Dopo qualche tempo insieme a questi amici aveva iniziato con l’alcol. Le cose erano cambiate subito. Dopo aver bevuto si sentiva sciolto e sicuro, parlava con tutti, era socievole, riusciva ad avvicinare le ragazze. Il bisogno di mantenersi il più possibile in questa condizione lo spingeva a ricercare l’alcol sempre più spesso e così l’abuso non rimase confinato soltanto al fine settimana, spesso c’erano “infrasettimanali”.
Già da questi primi racconti mi rendo conto di come per lui bere non abbia significato solo, come per molti suoi coetanei, un modo per vincere le timidezze tipiche dell’età o per sentirsi come gli altri. Per Marco già allora emergeva una sorta di funzione terapeutica dell’alcol, come se l’effetto andasse più in profondità a medicare delle ferite.
Con il passare del tempo le cose peggiorano: a scuola il rendimento scarseggia sempre più e perde un altro anno (arriverà alla fine a diplomarsi ma il suo interesse nei confronti della cultura e della società è davvero scarso), le amicizie diventano sempre più quelle che seleziona lo sballo. In famiglia, dove il cambiamento di abitudini, i ritorni a ora sempre più tarda, le continue richieste di soldi o le chiacchiere dei vicini che ogni tanto riferivano di averlo visto ubriaco in un posto o nell’altro, non erano certo passati inosservati, avevano tentato in tutti i modi: con le urla, le minacce, le ricerche di notte, i pianti anche le botte. Ma niente serviva a trattenerlo. Eppure lui era molto dispiaciuto del dolore che arrecava ai genitori, specialmente alla madre. A volte rimaneva per ore a piangere nel suo letto pieno di vergogna e disperazione. Ma poi ricominciava. 
In questo modo andò avanti per tutti gli anni delle scuole superiori. L’avvicinamento all’erba e al fumo in quel periodo peggiorò le cose. A scuola non poteva bere, e suppliva il fumo. Ed era subentrato anche lo spaccio che gli consentiva di maneggiare dei soldi. La cocaina arrivò non molto dopo il diploma, aveva vent’anni e il cocktail di alcol e coca divenne esplosivo. Allora tutta la sua vita cominciò a girare esclusivamente attorno a loro. Si intensificò anche l’attività di spaccio. Gli sembrava di essere entrato in un vortice dal quale era impossibile uscire, anche i suoi genitori sembravano rassegnati. Neanche la possibilità di rilevare il negozio, che come abbiamo visto portava avanti con tenacia e dedizione, aveva rappresentato un freno. Niente sembrava poterlo fermare, fino a quella mattina in cui i genitori lo affrontarono nel modo visto prima. Forse sentì che non erano rassegnati, che nutrivano ancora delle speranze per lui, che magari da qualche parte un aiuto poteva trovarlo.
Man mano che la terapia procede il racconto comincia a diventare più interiorizzato e il vissuto dell’astinenza assume sempre più il carattere di un amore perduto. I momenti in cui sente più fortemente la mancanza e il desiderio di riprovare quelle sensazioni non differiscono per nulla nei suoi racconti da quelli che descrivono la perdita di un amore: la morsa allo stomaco, il desiderio struggente, il senso di dolore totale. La cosa sorprendente è lo struggimento che prova quando rivede i luoghi, le cose, le persone che gli ricordano il periodo prima dell’astinenza. Allora il desiderio insorge prepotente e deve fare un grandissimo sforzo per resistere. Questo conferma quanto avevano scoperto i ricercatori statunitensi che, in una sorta di pubblicità progresso di qualche anno fa, avevano pensato di rendere negativo il valore della droga con dei cartelloni pubblicitari, esposti in alcuni quartieri, che davano una connotazione negativa agli oggetti di uso normale dei tossicomani come siringhe, cucchiai etc. Dopo qualche tempo, alla verifica dei risultati, venne fuori che nei quartieri dove questa pubblicità era presente, i servizi per le tossicodipendenze avevano riscontrato un numero di ricadute molto maggiore di quanto non si era riscontrato nei quartieri in cui tale pubblicità non veniva fatta.
Per molto tempo gli aspetti personali, non legati cioè alle sostanze, rimangono fuori dalla terapia. Passano dei mesi, ora la possibilità di incontrare di nuovo le sostanze inizia quasi a spaventarlo. Nel frattempo ha cominciato a ricostituire un minimo di tessuto sociale: ha rincontrato qualche vecchio amico e ha ripreso a frequentarlo, ha lasciato la vecchia ragazza e comincia a nutrire qualche nuova simpatia. In terapia comincia ad emergere un vissuto di profonda disistima e insoddisfazione di sé.
Marco ha una sorella più piccola che studia. E’ lei la brava di casa, della quale è orgoglioso, che dà soddisfazioni ai genitori. Lui invece… La madre e il padre si erano sposati perché lei era rimasta incinta. Ha sempre sentito come una sua colpa che loro si fossero dovuti sposare e forse non l’avrebbero fatto. Quando era bambino la madre, probabilmente depressa, passava intere giornate a letto. La casa restava immersa nel silenzio e lui spesso la sentiva piangere. Ha trascorso interi pomeriggi da solo a casa, senza far rumore. La madre non lo incentivava ad uscire, sentendosi evidentemente ancora più sola e depressa senza di lui. Fu in quel periodo che cominciò a rifugiarsi ogni tanto nel negozio dello zio. In famiglia hanno sempre avuto problemi economici, il padre lavorava saltuariamente ma anche quando non lavorava, non restava a casa. Con un livello di comprensione quasi sorprendente afferma di aver sempre pensato, e sentito, che i suoi genitori erano troppo concentrati su loro stessi per potersi prendere cura di lui.
Da un anno e mezzo non ha avuto ricadute. La psicoterapia procede ma ancora ci troviamo in superficie: a volte ci si avvicina a nuclei dolorosi mai toccati, ma è ancora presto e lui reagisce con episodi depressivi a questi avvicinamenti. Spesso si sente quasi disperato al pensiero e al ricordo di quanta sofferenza la sua dipendenza abbia arrecato a sé e a tutti, ora la psicoterapia è entrata in forma stabile nella sua vita, e lui riesce ad alleviare le sue angosce con il lavoro su di sé anziché con l’ingurgitare cose. Pensa e sente invece di fare. La strada è ancora lunga ma sta provando a reintrodurre nella sua vita un senso che non sia, come ha detto lui “la polvere pura come la neve per strada”.
Terminiamo con una poesia anonima trovata in rete e scritta proprio da un tossicodipendente:

Maledetta portatrice di nulla.
Ora rivoglio il mio dolore.
L’aspetterò tutta la notte
Per montarlo fino alla rabbia.
Maledetti ladri del mio tempo  
che avete avuto quello che volevate,  
ma che non sapete nulla di ciò che avete rubato.

Articoli consigliati